Posts in category “Diritto del Lavoro”

SULLA VIOLAZIONE DEL DIVIETO DI STORNO: IL PUNTO DELLA CASSAZIONE

violazione-del-divieto-di-storno.jpg

Con l’ordinanza n. 22247/2021, la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di violazione del divieto di storno e del patto di non concorrenza. Nella vicenda in esame, la Corte d’Appello di Milano confermava la sentenza del Tribunale con cui era stata accertata l'insussistenza della giusta causa delle dimissioni, rassegnate da Tizio, ex dipendente della società Alfa e, per l'effetto, lo aveva condannato a pagare la indennità sostitutiva di preavviso, pari ad euro 43.551,75, oltre accessori, la penale di euro 287.103,00 per ciascuna violazione del divieto di storno e del patto di non concorrenza e a restituire il corrispettivo percepito per il patto suddetto, pari ad euro 48.373,99, sempre oltre accessori, rigettando anche le altre richieste formulate dalla società, nonché la domanda riconvenzionale spiegata da Tizio. I giudici di merito rilevavano che le dimissioni di Tizio erano prive di giusta causa ed erano state rassegnate al solo scopo di passare alle dipendenze della nuova società datrice, ove il dipendente aveva fatto transitare alcuni clienti della società Alfa. Tizio si rivolgeva così alla Suprema Corte di Cassazione, che, confermando la statuizione della Corte territoriale, rigettava il ricorso. In particolare, gli Ermellini stabilivano che la disposizione di cui all'art. 2125 c.c. non può estendersi anche alla previsione contrattuale del divieto di storno di clienti, in quanto “il patto di non concorrenza ex art. 2125 cod. civ. e la clausola contrattuale contenente il divieto di storno di clientela vietano due condotte differenti: la prima, infatti, proibisce lo svolgimento di attività lavorativa in concorrenza con la società datrice, anche al termine del rapporto di lavoro ed ha durata, nel caso de quo, limitata a tre mesi dalla cessazione dello stesso; la seconda, invece, impedisce il compimento di atti e comportamenti funzionali a sviare la clientela storica verso un'altra impresa datrice, sfruttando il rapporto di fiducia instaurato e consolidato durante il periodo di dipendenza con la prima società”. Secondo i Giudici di piazza Cavour, i giudici di merito avevano correttamente ritenuto l’indipendenza delle due clausole (patto di non concorrenza e divieto di storno di clienti), la loro autonomia nella fonte normativa regolatrice le singole fattispecie e la loro singola violazione avvenuta attraverso condotte distinte, per tempi e modi, sebbene connesse sotto l'aspetto teleologico.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


PER LA VALIDITÀ DELLA CONCILIAZIONE È SUFFICIENTE L’ASSISTENZA DI UN SINDACALISTA DELEGATO

per-la-validita-della-conciliazione-e-sufficiente-lassistenza-di-un-sindacalista.jpg

La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 16154 del 9 luglio 2021, ha stabilito che, affinché la conciliazione sia valida, basta la presenza di un sindacalista delegato - pur non conosciuto dal dipendente - il quale presti un’assistenza idonea a sottrarre il lavoratore da quella condizione di inferiorità che potrebbe portarlo ad accordi svantaggiosi. La vicenda in esame traeva origine dal ricorso presentato da un dipendente dopo la sottoscrizione di un verbale di conciliazione tombale con il suo ex datore di lavoro, con cui lo stesso domandava il ricalcolo delle somme dovutegli per incentivo all'esodo e del TFR, nonché il risarcimento per danni psicofisici determinati dalle condotte vessatorie subite durante il rapporto lavorativo. Il giudice di merito non accoglieva la domanda, non avendo riconosciuto la dedotta nullità della conciliazione per mancata assistenza di un rappresentante sindacale, in quanto la sottoscrizione dell'accordo comporta implicito conferimento di un mandato al sindacalista sebbene non conosciuto dal prestatore. A questo punto, il caso giungeva in Cassazione, la quale, confermando quanto statuito dal giudice di merito, in via preliminare, rilevava che le rinunce e le transazioni riguardanti diritti del prestatore e contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale non sono impugnabili, purché l'assistenza prestata dai rappresentanti sindacali sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di conoscere a quale diritto rinunci ed in quale misura. Secondo gli Ermellini, l'assistenza effettiva dell'esponente sindacale è essenziale, ma a tale scopo è sufficiente che il sindacalista stesso sia idoneo a prestare in sede conciliativa l'assistenza prevista dalla legge. In altre parole, la compresenza del rappresentante sindacale e del prestatore al momento della conciliazione fa presumere l'adeguata assistenza del primo, chiamato a prestare opera di conciliatore in virtù di un mandato implicito che gli deve essere conferito dal lavoratore. Contrariamente, il prestatore è tenuto a provare che il sindacalista, pur presente, non abbia prestato assistenza di sorta. È in virtù di ciò che il Tribunale Supremo rigettava il ricorso del dipendente, il quale non aveva assolto tale onere probatorio.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


SULLA NOZIONE DI ATTIVITÀ GIORNALISTICA E RADIOTELEVISIVA: IL PUNTO DELLA SUPREMA CORTE

la-nozione-di-attivita-giornalistica-e-radiotelevisiva.jpg

Va intesa come giornalistica, la prestazione di lavoro intellettuale, della sfera dell'espressione originale o di critica rielaborazione del pensiero, che, utilizzando il mezzo di diffusione scritto, verbale o visivo, è volta a comunicare ad una massa indifferenziata di utenti, idee, convinzioni o nozioni, attinenti ai campi più diversi della vita spirituale, sociale, politica, economica, scientifica e culturale, ovvero notizie raccolte ed elaborate con obiettività, sebbene non disgiunta da valutazione critica. Ciò è quanto precisato dalla Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 16377 del 10 giugno 2021. Secondo gli Ermellini, “costituisce infatti, attività giornalistica - presupposta, ma non definita dalla legge 3 febbraio 1963, n. 69, sull'ordinamento della professione di giornalista - la prestazione di lavoro intellettuale diretta alla raccolta, commento ed elaborazione di notizie volte a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, ponendosi il giornalista quale mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso, con il compito di acquisire la conoscenza dell'evento, valutarne la rilevanza in relazione ai destinatari e confezionare il messaggio con apporto soggettivo e creativo; assume inoltre rilievo, a tal fine, la continuità o periodicità del servizio, del programma o della testata nel cui ambito il lavoro è utilizzato, nonché l'inserimento continuativo del lavoratore nell'organizzazione dell'impresa”. Non può iscriversi, in maniera riduttiva, l'attività giornalistica radiotelevisiva solo nell'ambito delle radio o dei telegiornali o nelle testate prettamente giornalistiche e di informazione, dal momento che la stessa rientra pure in programmi di intrattenimento o di svago, purché con contenuto propriamente informativo, essendo irrilevante a tali fini la legge 3 febbraio 1963, n. 69, sull'ordinamento della professione di giornalista. Inoltre, è irrilevante, per il riconoscimento della natura giornalistica dell'attività prestata dal dipendente RAI, la struttura aziendale dell'ente presso cui questi svolge la sua attività, essendo, invece, significativo il peculiare carattere informativo delle mansioni svolte. Il giornalista si pone come “mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso, con il compito di acquisirne la conoscenza, valutarne la rilevanza in relazione ai destinatari e predisporre il messaggio con apporto soggettivo e creativo, ed assumendo rilievo, a tal fine, anche l'attualità delle notizie e la tempestività dell'informazione, che costituiscono gli elementi differenziatori rispetto ad altre professioni intellettuali e sono funzionali a sollecitare l'interesse dei cittadini a prendere conoscenza e coscienza di tematiche meritevoli di attenzione per la loro novità”.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


SULLA COMUNICAZIONE DI AVVIO DELLA PROCEDURA DI LICENZIAMENTO COLLETTIVO: I CHIARIMENTI DELLA CASSAZIONE

comunicazione-di-avvio-della-procedura-di-licenziamento-collettivo.jpg

Con la sentenza n. 15119 del 31 maggio 2021, la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in materia giuslavoristica, affrontando il tema del licenziamento collettivo e della relativa procedura. In particolare, il Tribunale Supremo ha sottolineato che il comma 9 dell'art. 4 della Legge n. 223/1991 sancisce che la comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo, poiché finalizzata a consentire ai lavoratori, ai sindacati e agli organi amministrativi interessati di controllare la correttezza della comparazione, deve contenere, oltre all'elenco dei lavoratori licenziati, anche l'indicazione puntuale delle modalità con cui sono stati applicati i criteri di scelta e, dunque, l'indicazione completa dell'elenco (nominativo) dei lavoratori e dei punteggi a ciascuno di essi attribuito. “In tema di licenziamento collettivo, il termine di sette giorni previsto dall'art. 4, comma 9, della I. n. 223 del 1991, come modificato dalla I. n. 92 del 2012, per l'invio delle comunicazioni ai competenti uffici del lavoro ed alle organizzazioni sindacali, ha carattere cogente e perentorio e la sua violazione determina l'invalidità del licenziamento, a prescindere dalla circostanza che i lavoratori abbiano successivamente avuto conoscenza di tutti gli elementi che la comunicazione deve comunque avere (così da esprimere l'assetto definitivo sull'elenco dei lavoratori da licenziare e sulle modalità di applicazione dei criteri di scelta, Cass. ord. n.23034/18), atteso che detta comunicazione è finalizzata a consentire alle oo.ss. (e, tramite queste, anche ai singoli lavoratori) il controllo tempestivo sulla correttezza procedimentale dell'operazione posta in essere dal datore di lavoro, anche al fine di acquisire ogni elemento di conoscenza e non comprimere lo “spatium deliberandi” riservato al lavoratore per l'impugnazione del recesso nel termine di decadenza”. Poi ancora, gli Ermellini hanno chiarito che “la prima parte dell'art. 5 cit., dispone che la “l'individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità deve avvenire in relazione alle esigenze tecnico produttive ed organizzative del complesso aziendale”, ciò in forza dell'esigenza di ampliare al massimo l'area in cui operare la scelta, onde approntare idonee garanzie contro il pericolo di discriminazioni a danno del singolo lavoratore, in cui tanto più facilmente si può incorrere quanto più si restringe l'ambito della selezione; la platea dei lavoratori interessati alla riduzione di personale può essere dunque limitata solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale”, e il datore è tenuto a provare il fatto che determina l'oggettiva limitazione di tali esigenze.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


SULLE DIMISSIONI NEL PUBBLICO IMPIEGO E L’INAPPLICABILITÀ DELLA CONVALIDA: IL PUNTO DELLA SUPREMA CORTE

dimissioni-nella-pubblica-amministrazione.jpg

“Le disposizioni della I. n. 92 del 2012, ed in particolare quelle relative alla procedura di convalida delle dimissioni, non si applicano automaticamente al pubblico impiego ma necessitano di uno specifico intervento legislativo di armonizzazione”. Ciò è quanto stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 14993 del 28 maggio 2021. Ai fini dell'applicabilità all'impiego pubblico contrattualizzato della disciplina relativa alla procedura di convalida delle dimissioni, di cui all'art. 4, commi 16-22 della legge n. 92 del 2012, è necessaria l'adozione di appositi provvedimenti attuativi per l'armonizzazione del lavoro privato con il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, e questo in quanto anche la disciplina della convalida delle dimissioni è modulata sulle dinamiche del lavoro privato, in relazione alla necessità di garantire che le dimissioni siano frutto di autonoma determinazione del lavoratore, in particolare nei periodi in cui quest’ultimo non può essere licenziato, piuttosto che su quelle del lavoro pubblico contrattualizzato. Difatti, l'art. 4, commi da 16 a 22, della l. n. 92 del 2012, per assicurare la corrispondenza fra la dichiarazione di volontà del lavoratore e l'intento risolutorio, rafforza il regime della convalida, che diviene condizione sospensiva della risoluzione del rapporto di lavoro stesso. “Non sussiste alcuna disparità di trattamento ovvero violazione degli artt. 3 e 102 Cost., atteso che il lavoro pubblico e il lavoro privato non possono essere totalmente assimilati (Corte costituzionale sentenze n. 120 del 2012 e n. 146 del 2008) e le differenze, pur attenuate, permangono anche in seguito all'estensione della contrattazione collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, e che la medesima eterogeneità dei termini posti a raffronto connota l'area del lavoro pubblico contrattualizzato e l'area del lavoro pubblico estraneo alla regolamentazione contrattuale”. Dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 29 del 1993, essendo il cd. rapporto di pubblico impiego privatizzato disciplinato dalle norme del codice civile, dalle leggi civili sul lavoro ed anche dalle norme sul pubblico impiego, le dimissioni del lavoratore costituiscono un negozio unilaterale recettizio che comportano la risoluzione del rapporto di lavoro dal momento in cui vengono a conoscenza del datore di lavoro e indipendentemente dalla volontà di quest'ultimo di accettarle, sicché, per divenire efficaci, non necessitano più di un provvedimento di accettazione da parte della P.A. Pertanto, l’amministrazione “non può rigettare l'istanza del dipendente di dimissioni, ma si deve limitare ad accertare che non esistano impedimenti legali alla risoluzione del rapporto”.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'